Le bombe di Roma

Il 12 dicembre 1969, mentre a Milano si consumava la strage di piazza Fontana, tre bombe scossero la Capitale. Tre ordigni piazzati sull’Altare della Patria e all’interno della Banca Nazionale del Lavoro di via Veneto scoppiarono nelle stesse ore seminando il panico nel centro di Roma. Stesso tipo di esplosivo, stesse dinamiche, stessa vana ricerca degli autori materiali: solo per circostanze fortuite non ci furono vittime, ma gli attentati romani furono altrettanto significativi in quella che fu la strategia delle stragi di Stato. Significativi, ma finora poco conosciuti e studiati. 

Ecco allora il libro "Le bombe di Roma", edito da Castelvecchi: il primo ad accendere una luce sugli attentati del '69 nella Capitale. Il libro parte dalla storia di un personaggio alquanto particolare, il tedesco Udo Lemke, che la mattina del 13 dicembre 1969 si presentò in caserma dichiarando di aver visto gli attentatori in azione all'Altare della Patria e di averli riconosciuti. Attraverso la sua complicata e mai chiarita vicenda viene raccontata l'inchiesta e il processo che si è concluso con un nulla di fatto: i responsabili non sono mai stati individuati, mentre persone innocenti hanno trascorso in carcere diversi anni della loro vita pur non avendo fatto niente.

La storia di Lemke si intreccia con quella di un'artista islandese, una femminista anarchica, Roska Oskardottir, che si mise sulle sue tracce per farlo testimoniare al processo su Piazza Fontana. Cosa che le riuscì, ma non fu sufficiente. Udo Lemke nell'agosto 1972 venne condannato per calunnia e rispedito in Germania dove si sono perse le sue tracce. Ma la ricerca continua: sul blog “Le bombe di Roma” si continuano a raccogliere testimonianze, segnalazioni, documenti su questo personaggio che, seppur minore, o marginale, rispetto all’intrigata vicenda del 12 dicembre 1969, può offrire spunti di riflessione sul modus operandi di chi ha orchestrato il tutto.

«Per uno storico come il sottoscritto la scelta di raccontare la storia come un "romanzo" lascia sempre quantomeno perplessi. È stata una delle prime cose che ho scritto a Nicoletta», scrive Marco Capoccetti Boccia nella prefazione. «Ma è verissima la risposta che lei mi ha dato: il suo lavoro rende accessibile a tutte e tutti, anche a chi ha poca dimestichezza con atti, verbali e veline, la vicenda senza la freddezza e a volte la noiosità di molti lavori storiografici. Ogni episodio, però, che ha in parte romanzato, ha delle solide basi testimoniali ampiamente inserite nei documenti in pdf.
Nicoletta mi scrisse tempo fa, in risposta alle mie a volte pedanti annotazioni critiche: «Io non sono una storica, sono piuttosto una divulgatrice di storie».
Una frase che mi è piaciuta subito e che ho imparato ad apprezzare ogni giorno di lettura e rilettura del suo lavoro. Appunto per questo, per soddisfare le legittime richieste di spiegazioni di chi invece vuole andare più in profondità ha creato il blog dove saranno pubblicati tutti i documenti: dai verbali degli interrogatori, alle veline, agli articoli di giornale che attestano tutto ciò che l'autrice ha raccontato. Non solo. Il blog servirà per ampliare la storia, per raccogliere testimonianze e altri elementi che spero possano accrescere e gettare luce su questa vicenda ancora oscura».

Ringraziamenti

Questo libro è dedicato a Enrico Di Cola, a Roberto Gargamelli,  al “22 marzo”. Senza di loro, senza il loro supporto e incoraggiamento, senza la loro memoria e gli atti giudiziari, sarebbe stato difficile riuscire a venire a capo di questa storia inedita, complicata, complessa. Grazie.
La mia riconoscenza va inoltre a Franco Schirone che con grande generosità ha aperto i suoi archivi e mi ha aiutato a trovare la strada e a Elda Necchi che per prima ha letto il manoscritto.
Un grazie speciale a Cristina Guarnieri, Francesca Carbone, Miriam Capaldo,  Alessandro Sparatore, Eleonora Tesconi.
Sono debitrice nei confronti di Marco Capoccetti Boccia per i suggerimenti e le puntualizzazioni ma soprattutto per la prefazione che rende il libro prezioso. Tutta la mia gratitudine va infine a Sofia e a Dario che hanno sopportato i lunghi periodi di ricerche, gli studi e la scrittura di questo libro.
Grazie

Le opere di Roska Óskarsdóttir


















Roska Óskarsdóttir

Roska Óskarsdóttir appartiene alla generazione di artisti europei radicali che hanno voluto distruggere i confini tra arte e vita, che hanno combattuto contro lo snobismo artistico della borghesia, la compiacenza politica delle masse e la macchina dei professioni della politica. Roska è stata pittrice, fotografa, regista cinematografica ma soprattutto una sovversiva; il tema della sua vita è stato "ribellione continua nel vivere la poesia e la politica", come scrisse in un articolo del 1978 sul surrealismo.

Il suo vero nome era Ragnhildur Oskardottir ed era nata nel 1940 a Reykjavik.  Hjalmar Sveinsson, nella biografia a lei dedicata, racconta che Roska, dopo aver lasciato la scuola secondaria, lavorò nella prima galleria d'arte islandese privata poi continuò i suoi studi presso l'Icelandic College of Art and Craft. Studiò a Praga per un anno, ne trascorse un altro a Parigi, poi si iscrisse all'Accademia di Belle Arti di Roma. In occasione della sua prima personale a Reykjeavik nel 1967 presso la galleria Casa Nova con 55 dipinti e disegni, in gran parte in stile espressionistico figurativo, ma in alcuni era evidente l'ironia della pop art. La mostra fu pubblicizzata come "un'introduzione artistica ad opera del Sum", un gruppo di giovani artisti d'avanguardia che in seguito avrebbero avuto un grande impatto sull'arte islandese. Roska fu invitata a unirsi al gruppo e a quell'epoca partecipò a una esposizione all'aperto dove presentò una lavatrice trasformata in una rampa di lancio missilistico. Questa fu probabilmente la prima opera d'arte femminista in Islanda.

Mentre era a Roma Roska incontrò il giovane pittore di talento Manrico Pavolettoni, che in seguito sarebbe divenuto suo marito. E' con lui che si mise alla ricerca di Udo Lemke in Germania per farlo testimoniare al processo su Piazza Fontana e scagionare gli anarchici (clicca per leggere i documenti). Il loro grande appartamento in via Giulia divenne presto un domicilio per i giovani artisti che arrivano in città.

A partire dal 1967 i suoi lavori divennero più politici e scoprì un mezzo in cui i giovani artisti radicali riponevano grandi speranze: il cinema. Il primo film in cui recitò, girato a Roma nel 1967, era "L'uomo della folla", basato sul racconto omonimo di Edgar Allan Poe. Il regista era Oddo Bracci e il cameraman un giovane americano di nome Tony Lurasky figlio di un dirigente della Paramount Picture. Il protagonista maschile era l'islandese Hreinn Fridfinsson che all'epoca viveva in via Giulia, uno dei fondatori del Sum. Il film fu proiettato due anni dopo a una mostra del Sum ma tutte le copie sono andate perdute. Nel 1969 Roska ha avuto anche a che fare con due film che Jean Luc Godard girò in Italia: "La lutee ouvière en Italie" e "Vento dell'Ovest". Godard all'epoca girava documentari politici e aveva fondato un gruppo, formato da studenti e giovani filmmakers, che si identificava con il cineasta russo Dziga Vertov. Presto all'interno del gruppo si manifestarono contrasti tra i maoisti e gli anarchici. Godard si considerava un maoista, ma Roska e i suoi compagni si vedevano come anarchici e infine produssero un loro film, intitolato "L'impossibilità di recitare Elettra oggi". Il film racconta la storia di alcuni giovani che intendono mettere in scena l'Elettra di Sofocle, ma giungono alla conclusione che è impossibile, che l'unica vera arte sta nel dialogo tra le persone che si impegnano nella battaglia dei lavoratori e si ribellano contro l'autorità. L'ispirazione per il film veniva da una serie di evanti che ebbero luogo nel 1968 nel paese di Fabbrico, presso Modena, dove i lavoratori e gli studenti occuparono un cinema e una casa della cultura. La stessa Roska partecipò agli eventi di Fabbrico, che la influenzarono profondamente come i suoi diari dimostrano chiaramente.

Ma nel 1969 Roska non fu attiva solo in Italia. In autunno tornò in Islanda con due compagni e annunciò nelle interviste ai giornali che intendeva girare un documentario di protesta. Lei e i suoi colleghi avevano con sè molti documentari sulle rivolte studentesche e le manifestazioni a Parigi e Roma e invitò il pubblico islandese a vederli. In quello stesso autunno Roska partecipò ad una grande mostra internazionale del Sum a Reykjavik (Sum III) dove tra le altre furono esibite le opere di Joseph Beuys, Robert Filiou e Daniel Spoerri. Il contributo di Roska fu una gigantesca bomba molotov, la valigia del rivoluzionario, poster di propaganda e una barricata presentati con il titolo "L'opera dei sindacati e degli studenti rivoluzionari in Italia". Le fu chiesto di tenere una conferenza sull'arte contemporanea al Reykjavik Junior College e lì mostrò foto di graffiti politici sui muri di Roma, informando la sala piena di studenti e insegnanti che era quella l'arte contemporanea. Fu coinvolta in un dibattito pubblico su una grade fotografia raffigurante la polizia in tenuta antisommossa, su cui era scritto in "oppressione, violenza, omicidio". La foto fu rifiutata da una mostra organizzata dalla Società degli artisti islandesi.

Nel novembre dello stesso anno fu responsabile di due spettacoli politici in autentico spirito situazionista: movimentò un festival in onore del premio nobel islandese Haldor Laxness, poi salì sul palco agitando una bandiera nord-vietnamita mentre la sua amica Birna Thordardottir pronunciava un discorso contro il coinvolgimento militare americano in Vietnam con l'appoggio dato dall'Islanda e denunciando il fatto che Halldor Laxness sarebbe dovuto diventare l'amico di questa stessa borghesia che prima odiava. Il giorno seguente, accompagnata da un drappello di ragazzi islandesi, penetrò nella base aerea della marina americana di Keflavik, entrò nello studio televisivo e interruppe le trasmissioni per una buona mezz'ora spruzzando vernice rossa sulle lenti delle telecamere e poi dipingendo le parole "Viva Cuba!" e "Brain Wshing Centre" sulle pareti dello studio. Le trasmissioni tv della base americana erano ampiamente trasmesse in Islanda e venivano considerate una minaccia all'indipendenza culturale del paese sia dalla sinistra che dai militanti per i diritti civili.

Dal 12 dicembre 1969, pur partecipando a numerose collettive in Italia, Islanda e Spagna, spese gran parte delle sue energie nelle battaglie politiche, nella controinformazione anche disegnando manifesti, illustrazioni per giornali e riviste, come quelli per Lotta Continua.
Dal 1974 al 1976 lei e Manrico realizzarono otto documentari sull'Islanda per la Rai, ma la televisione islandese si rifiutò di mandarli in onda.
Nel '77 scrisse lo script del film "The Ballad of Olafur Liljuros", lungo 35 minuti, basato su un racconto popolare islandese.
Scrisse inoltre il lungometraggio "Soley" che uscì nel 1982 anch'esso ispirato a motivi del folklore islandese. Entrambi, nonostante i motivi etnici tratti dalla società contadina islandese, possono essere visti come allegorie della lotta per la sopravvivenza di gruppi oppressi. Il nemico, tuttavia non è più il capitalismo come potere mondiale, ma piuttosto le catene della mente umana che impediscono alla gente di realizzare i propri sogni.

Durante gli anni Ottanta sembrò che Roska si fosse ritirata per sempre. C'erano molte ragioni per questo: la sua salute era molto peggiorata a causa dell'epilessia; con il film Soley aveva perso parecchio denaro, e il consumo di droghe da parte di Roska e Manrico era cresciuto notevolmente. Lasciò Roma e si trasferì di nuovo in Islanda. Fece altre due mostre, nel 1990 e nel 1993. Nel 1996 il Living Art Museum di Nylistasafnid la invitò a tenere una grande retrospettiva delle sue opere. Nel mese di marzo, mentre la mostra era in preparazione, Roska tenne una performance nel museo.
Due settimane dopo Roska è morta.

(bibliografia: Hjalmar Sveinsson su "Donne e ragazzi casalinghi", 2001)

Guarda qui le sue opere

La ricerca di Roska e Manrico

Nell'aprile del 1972 Roska e Manrico a bordo del furgoncino Volkswagen rosso e nero dell'anarchica arrivarono in Germania alla ricerca di Udo Lemke il quale, a pochi giorni dall'apertura del processo di piazza Fontana, era stato liberato del carcere giudiziario di Perugia dove era stato trasferito per «disturbi del contegno» e rimpatriato.
Di seguito gli interrogatori di Manrico Pavelottoni da parte del giudice istruttore D'Ambrosio nel quale il registra racconta la loro ricerca di Udo

Udo Lemke, i documenti


Udo Lemke, un sedicente studente di chimica tedesco, il 13 dicembre 1969 si presenta alla caserma dei carabinieri di piazza San Lorenzo in Lucina a Roma come testimone dell'ordigno scoppiato all'Altare della Patria. Ai carabinieri dice di aver riconosciuto gli attentatori del 12 dicembre indicandoli in tre siciliani che quindici giorni prima, a Catania, gli avevano offerto un lavoretto pagato anche bene: “Mettere delle borse in alcune piazze italiane e poi scappare”. Lemke sostiene davanti ai militari di aver capito che l'incarico era tutt'altro che legale e di aver quindi rifiutato scatenando l'ira dei siciliani che gli fecero capire chiaramente che era meglio che sparisse dalla circolazione. Cosa che Lemke non fece: andò a Roma a vivere con degli hippy che si erano accampati nelle catacombe dell'Aracoeli ai piedi del Milite Ignoto. E stava proprio lì quando scoppiò la bomba: uscì fuori e riconobbe i bombaroli mentre fuggivano a bordo di una Fiat 124 bianca. I carabinieri, invece che ringraziarlo, lo dichiararono «teste a disposizione» e quindi lo trattennero per dieci giorni nelle celle di sicurezza della caserma.

Comincia da qui l'avventura giudiziaria di Udo Lemke che potete leggere nei documenti che lo riguardano: interrogatori, verbali, deposizioni che trovate qui di seguito.

La stampa

La vicenda di Lemke fu seguita all'epoca da diversi giornali. Eccone alcuni.

UNITA' - I numeri pubblicati sono tratti dall'archivio on line del giornale

LOTTA CONTINUA - L'archivio completo di Lotta Continua è consultabile nel sito della Fondazione Erri De Luca

A RIVISTA ANARCHICA - Gli articoli che riguardano Udo Lemke sono pubblicati nel blog StragediStato gestito da Enrico Di Cola. L'archivio completo di A è on line sul sito della rivista

ABC - Gli articoli che riguardano Udo Lemke usciti sul settimanale ABC sono pubblicati nel blog StragediStato gestito da Enrico Di Cola
L'ultima traccia di Udo Lemke sulla stampa è quella della rivista Christianity Today

Repubblica, 7/3/2016, "L'inchiesta: 12 dicembre 1969 gli attentati a Milano e Roma"

L'inchiesta: 12 dicembre 1969 gli attentati a Milano e Roma
Il 12 dicembre 1969 non esplose solo la bomba che provocò la strage di piazza Fontana, nella banca dell'Agricoltura a Milano. Lo stesso giorno altre tre bombe esplosero nel centro di Roma e solo per circostanze fortuite non ci furono altre vittime. Nicoletta Orlandi Posti ricostruisce, basandosi sulle carte dei procedimenti giudiziari, l'inchiesta sulle bombe nella capitale di quel tragico giorno. La vicenda si dipana lungo intrecci imprevedibili, quasi fosse il prodotto della fantasia dell'autore di un romanzo, mentre invece sono vicende reali della storia italiana.
 (gs)

Recensione su "La dolce vita"

Sulla rivista "La Dolce Vita", la recensione del libro di Paolo Martocchia

Il venerdì di Repubblica, 26 febbraio 2016



Umanità Nova, "Le bombe di Roma"



Umanità Nova, 28 febbraio 2016
di DNA
 
Sembra un noir, con colpi di scena che tengono incollati il lettore fino all'ultima pagina. Ma a differenza dei romanzi che sono frutto della fantasia dell'autore, quella raccontata nel nuovo libro di Nicoletta Orlandi Posti è una storia dannatamente vera: quella delle bombe che il 12 dicembre 1969 scoppiarono a Roma sull’Altare della Patria, all'ingresso del Museo del Risorgimento e all’interno della Banca Nazionale del Lavoro di via Veneto nelle stesse ore in cui a Milano si consumava la strage di piazza Fontana. Stesso tipo di esplosivo, stesse dinamiche, stessa vana ricerca degli autori materiali: solo per circostanze fortuite non ci furono vittime, ma gli attentati romani furono altrettanto significativi in quella che fu la strategia delle stragi di Stato. Significativi, ma finora poco conosciuti e studiati. Ecco allora che Nicoletta ne “Le bombe di Roma” (Castelvecchi) racconta l'inchiesta e il processo che si è concluso con un nulla di fatto - i responsabili non sono mai stati individuati, mentre persone innocenti hanno trascorso in carcere diversi anni della loro vita pur non avendo fatto niente – attraverso la strana vicenda di Udo Lemke, uno studente tedesco che la mattina del 13 dicembre si presenta alla caserma di San Lorenzo in Lucina a Roma sostenendo davanti ai carabinieri di sapere chi aveva messo le bombe all'Altare della patria. 
Udo è un personaggio strano, controverso, se vogliamo imbarazzante e la sua storia ha dell'incredibile. Le la sua vicenda è a tutti gli effetti un giallo sul quale è calato purtroppo in maniera definitiva il sipario.
Partiamo dall'inizio. Udo si presentò in caserma da testimone sostenendo di aver riconosciuto gli attentatori che scappavano pochi minuti dopo l'esplosione dall'altare della patria. Raccontò di essere un hippy che viveva insieme ad altri capelloni nelle catacombe sotto la chiesa di Regina Coeli. Appena sentito lo scoppio uscì e vide fuggire dei giovani che aveva conosciuto qualche settimana prima in un suo viaggio in Sicilia. Gli stessi gli avevano offerto un lavoro che lui aveva rifiutato: gli avrebbero dato un bel po' di soldi se avesse lasciato delle borse in alcune piazze che gli avrebbero indicato: non era nulla di pericoloso, non si sarebbe fatto male nessuno, ci sarebbe stato uno scoppio e un po' di caos, niente di più. Al rifiuto di Udo che ritenne la cosa illegale gli fu consigliato di lasciare l'Italia e di non farsi più vedere in giro. Cosa che il tedesco non fece. Tornò infatti a Roma, fu testimone degli attentati e la mattina dopo andò in caserma a raccontare quello che gli era successo.
Da testimone, però diventò fermato. Subito dopo la deposizione si aprirono per lui le porte del carcere: passò dieci giorni dietro le sbarre in qualità di "teste a disposizione" poi anche dai carabinieri gli fu intimato di lasciare l'Italia. Udo andò in Grecia. Nel frattempo le indagini portarono a individuare i personaggi tirati in ballo da Udo: si trattava di giovani fascisti siciliani ma gli inquirenti, a differenza della controinformazione che subito dopo la strage di Piazza Fontana si era messa in moto per scagionare Pietro Valpreda e gli anarchici del “22 marzo”, ritennero che non avessero nulla a che fare con quella storia.
Udo passò una quarantina di giorni in Grecia poi decise di tornare a Roma, ma non appena arrivato nella Capitale venne arrestato. Una signora americana aveva denunciato la scomparsa dei suoi gioielli, la polizia con un mandato di perquisizione li cerca nella stanza dell'albergo appena affittata da Udo, da una sua giovane amica canadese e da un austriaco che aveva conosciuto la sera prima. I poliziotti nella stanza non trovano i gioielli, ma un pacco con dentro nove chili di hascisc. L'austriaco durante la perquisizione riuscì a fuggire, Udo e la ragazza invece vennero arrestati. Dopo quattro mesi di carcere il processo: la canadese venne prosciolta da ogni accusa, Udo fu condannato a tre anni di reclusione per detenzione a fini di spaccio. A quel punto il tedesco andò fuori di testa e fu trasferito nel manicomio criminale di Perugia per disturbi del contegno dove non fu possibile per nessuno avvicinarlo.
Due mesi prima dell'apertura del processo contro Valpreda e gli anarchici, Udo nonostante non avesse terminato di scontare la pena, fu accompagnato alla frontiera con l'ordine di non mettere più piede in Italia. I compagni della controinformazione, però, ritenevano la sua testimonianza fondamentale per scagionare gli anarchici e tentano in tutti i modi di rintracciarlo.
Ci riuscirono Manrico Pavolettoni e Roska Oskardottir, un'artista islandese, una femminista che varrebbe la pena conoscere più a fondo perché è un personaggio fantastico purtroppo ancora inedito in Italia. Nel libro viene raccontata anche la sua storia, la sua arte, le sue battaglie per i diritti civili, le sue prese di posizione, le sue performance politiche come quella durante un festival in onore del premio nobel per la letteratura islandese Haldor Laxness o il blitz nella base aerea della marina americana di Keflavik: entrò nello studio televisivo e interruppe le trasmissioni per una buona mezz'ora spruzzando vernice rossa sulle lenti delle telecamere e sui muri.
Tornado alla storia di Udo, Roska e Manrico trovarono il tedesco, riuscirono a parlarci (Roska rimase anche vittima di uno strano agguato) e a convincerlo a tornare in Italia a raccontare ai giudici istruttori del processo su piazza Fontana e le bombe di Roma quello che aveva visto. Udo con mille problemi e disavventure arrivò a Milano alla fine di luglio: in cinque giorni raccontò ai magistrati cinque versioni differenti della sua storia cadendo in palesi contraddizioni, sostenne tutto e il contrario di tutto, al punto che i giudici lo incriminarono per calunnia e lo rispedirono in Germania. Dal 4 agosto 1972 di sono perse le sue tracce.
Anche i compagni della controinformazione rinunciarono a cercarlo. Su di lui si erano addensati tanti e tanti infamanti sospetti che non fu più ritenuto così importante parlarci. Molti lo definirono un mitomane ma senza spiegare come facesse un mitomane tedesco di 23 anni a sapere così tante cose a meno di 24 ore dalle bombe. Altri ritennero che seppure avesse detto la verità ai carabinieri il 13 dicembre qualcuno fece in modo che la sua testimonianza venisse resa inattendibile, venne cioè messa in atto una strategia attraverso la quale la reputazione di Lemke fosse talmente pregiudicata da non poter più essere presa in considerazione.
Oggi a distanza di 46 anni sarebbe interessante sapere, al di là della sentenza della Cassazione, che ruolo abbia avuto Udo nella preparazione degli attenti e anche nell'inchiesta.  Di certo c'è che le ritrattazioni così clamorose, quella confusione creata attorno alle piste nere fu molto utile a quanti volevano sviare le indagini dai veri responsabili della strage.
Udo è un personaggio marginale ma se si analizza il suo comportamento ci imbattiamo in tante e tali stranezze che sembrano pianificate a tavolino: è un personaggio che spunta fuori dal nulla, riesce a spostarsi con grande facilità per trovarsi in situazioni che meriterebbero di essere chiarite; sparisce, riappare, parla e poi ritratta, passa per pazzo ma dice cose che alla fine la Cassazione ha dovuto in qualche modo ammettere. Il giorno dopo gli attentati aveva già indicato la pista nera, già aveva parlato dei rapporti tra la mafia e l'estrema destra, già aveva parlato di quel piano eversivo che verrà rivelato solo mesi dopo. Il giorno dopo le bombe aveva già scagionato gli anarchici.

Bombe a Roma, il segreto della strage fallita

di Benedetta Vitetta
Se dico 12 dicembre 1969, cosa vi viene in mente? Immagino che ai più la memoria torni subito alla strage di Piazza Fontana a Milano, alla bomba che fu fatta esplodere all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura, dove 17 persone persero la vita e quasi un centinaio rimasero ferite. L’attentato terroristico che insanguinò il cuore di Milano (oltre a Piazza Fontana quel giorno in città un altro ordigno, inesploso, fu rinvenuto in piazza della Scala, nella sede della Banca Commerciale Italiana) segnò anche l’inizio di un triste e lungo periodo noto come «strategia della tensione». 
Un disegno razionale ideato e portato avanti da elementi di estrema destra per creare instabilità nel Paese col chiaro intento di imporre una svolta politica reazionaria. Come detto, questa stagione inizia appunto dall’attentato di Milano e prosegue con una serie di stragi e omicidi per i successivi 11 anni, per poi chiudersi il 2 agosto 1980 con la strage alla stazione di Bologna. 
Ma se a distanza di quasi 47 anni fiumi d’inchiostro sono stati versati su Piazza Fontana ed è ormai riconosciuto che a mettere le bombe sono stati esponenti neofascisti in collaborazione con agenti dei servizi segreti, poco o nulla si conosce su quel che successe quello stesso pomeriggio a Roma. Nella capitale, infatti, a distanza di poco meno di un’ora dall’attentato di Milano, scoppiarono tre bombe. La prima, che fece 13 feriti, esplose nel sotterraneo che collega l’entrata di via Veneto della Banca Nazionale del Lavoro con quella di via San Basilio; la seconda davanti all’Altare della Patria e l’ultima (che ferì quattro persone) all’ingresso del Museo Centrale del Risorgimento di Piazza Venezia. Solo per una casualità non fu un’altra strage. 
Di questo - di quel poco che si sa sulla strategia che sta dietro a questi ordigni, sugli autori e sugli esecutori di questi attentati terroristici in fieri - si occupa l’ultimo libro della giornalista Nicoletta Orlandi Posti (Le bombe di Roma. Udo Lemke, una storia mai chiarita, Castelvecchi, pp. 144, euro 16,50), che basandosi sulle carte dei procedimenti giudiziari, per la prima volta in Italia, ricostruisce l’inchiesta su quelle bombe. 
L’autrice, in particolare, si sofferma su alcuni personaggi le cui dichiarazioni all’epoca furono sottovalutate o, più probabilmente, volutamente non prese in considerazione dagli inquirenti. Su tutti spicca la figura di Udo Lemke, giovane tedesco hippy, che a poche ore dagli attentati si presentò in caserma per raccontare la sua storia. Disse di aver visto in Piazza Venezia tre fascisti di sua conoscenza fuggire dopo l’attentato all’Altare della Patria. Li descrisse minuziosamente, spiegò dove e come li aveva incontrati e conosciuti. Udo si fece avanti pensando di poter essere di aiuto, non certo d’intralcio, alle indagini. Ma non fu cosí: gli inquirenti, dopo aver fatto qualche indagine piuttosto approssimativa, si fermarono. Quasi archiviarono la deposizione, come si fa coi testimoni scomodi. Non dettero credito al tedesco e lo rinchiusero in cella per 10 giorni. Poi lo lasciarono andare, finché qualche tempo dopo lo rimisero dentro per un episodio di droga, a cui il ragazzo era estraneo. Poi fu estradato in Germania col divieto di rientrare in Italia.
«Ma chi era Udo? Un infiltrato dei servizi segreti italiani o addirittura di quelli tedeschi? Quale fu il suo intervento in quel caos che fu l’inizio vero e proprio della stagione delle stragi di Stato», si domanda lo storico Marco Capoccetti Boccia nella prefazione del libro. E perché mai si rivolse alla polizia, cosa pensava di ottenere? Voleva forse aiutare le forze dell’ordine, ma perché? Come mai si decise di non indagare sulle persone tirate in ballo da Udo? Cosa si sarebbe potuto scoprire seguendo quella pista? Tante, troppe, domande a cui non si è mai voluto trovare una risposta e che forse, guardando la vicenda con gli occhi di oggi, avrebbero potuto cambiare, se non il corso della storia, per lo meno lo sviluppo delle inchieste. 
Molti gli stralci degli interrogatori e le deposizioni di testimoni, di persone coinvolte nelle stragi o semplicemente di innocenti (che si tentò di collegare ai fatti del 12 dicembre) contenute nel volume: atti importanti - frutto di un lungo e puntiglioso lavoro dell’autrice - ma che forse avrebbero reso un po’ ostica la lettura. Ecco quindi la scelta vincente della Orlandi Posti che per spiegare l’intricata vicenda ha optato per la forma del romanzo. Una formula che riesce a tenere incollati i lettori, anche quelli meno avvezzi ai romanzi storico-politici, fino all’ultima pagina. 
Le bombe di Roma, analizzando in profondità alcuni piccoli elementi che le indagini di allora non hanno forse voluto cogliere, ci riporta ai primi anni ’70, facendoci comprendere meglio il clima che si respirava nei cosiddetti «anni di piombo» e rivivere la contrapposizione politica e gli scontri sociali di allora, spiegandoci il ruolo dei servizi segreti e della contro-informazione che allora iniziava a germogliare.

Rassegna stampa

Qui trovate gli articoli e le segnalazioni sul libro. Grazie a quanti hanno contribuito e contribuiranno a far conoscere la storia raccontata. I colleghi giornalisti interessati a recensirlo possono mettersi in contatto con l'ufficio stampa di Castelvecchi Giulia Magi: giuliamagi@castelvecchieditore.com

Sole24Ore, 14 febbraio 2016


1969, NON SOLO PIAZZA FONTANA
di Andrea Di Consoli

Milano, piazza Fontana, ore 16,30 del 12 dicembre 1969: una bomba piazzata nel salone del tetto a cupola della Banca Nazionale dell'Agricoltura uccide 16 persone e ne ferisce 87. Molti però ignorano che a Roma, lo stesso giorno, appena 25 minuti dopo, esplode la prima di una serie di bombe: ore 16, 55 via Veneto, ingresso BNL; ore 17,20 Altare della Patria; ore 17,30 ingresso Museo Centrale del Risorgimento, piazza Venezia. Tre bombe che fortunatamente non causano nessun morto, ma solo feriti. Perché nessuno mai parla di questi attentati? Lo fa ora, assai opportunamente, Nicoletta Orlandi Posti, che in "Le bombe di Roma" (Castelvecchi, pagg.136, euro 16,50) prova a riaprire i conti con una storia sulla quale anche la magistratura si è arresa. La Orlandi Posti prova a capirci qualcosa seguendo le ambigue vicende di un oscuro "capellone" tedesco: Udo Lemke. Costui il 13 dicembre confessò di aver visto gli attentatori i quali a suo dire erano catanesi avendoli conosciuti qualche giorno prima. Dice il vero? E perché nel 1972 viene accusato di falsa testimonianza e rispedito in Germania? Dove è ora? E se davvero ha dichiarato il falso per conto di chi lo ha fatto?