Bombe a Roma, il segreto della strage fallita

di Benedetta Vitetta
Se dico 12 dicembre 1969, cosa vi viene in mente? Immagino che ai più la memoria torni subito alla strage di Piazza Fontana a Milano, alla bomba che fu fatta esplodere all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura, dove 17 persone persero la vita e quasi un centinaio rimasero ferite. L’attentato terroristico che insanguinò il cuore di Milano (oltre a Piazza Fontana quel giorno in città un altro ordigno, inesploso, fu rinvenuto in piazza della Scala, nella sede della Banca Commerciale Italiana) segnò anche l’inizio di un triste e lungo periodo noto come «strategia della tensione». 
Un disegno razionale ideato e portato avanti da elementi di estrema destra per creare instabilità nel Paese col chiaro intento di imporre una svolta politica reazionaria. Come detto, questa stagione inizia appunto dall’attentato di Milano e prosegue con una serie di stragi e omicidi per i successivi 11 anni, per poi chiudersi il 2 agosto 1980 con la strage alla stazione di Bologna. 
Ma se a distanza di quasi 47 anni fiumi d’inchiostro sono stati versati su Piazza Fontana ed è ormai riconosciuto che a mettere le bombe sono stati esponenti neofascisti in collaborazione con agenti dei servizi segreti, poco o nulla si conosce su quel che successe quello stesso pomeriggio a Roma. Nella capitale, infatti, a distanza di poco meno di un’ora dall’attentato di Milano, scoppiarono tre bombe. La prima, che fece 13 feriti, esplose nel sotterraneo che collega l’entrata di via Veneto della Banca Nazionale del Lavoro con quella di via San Basilio; la seconda davanti all’Altare della Patria e l’ultima (che ferì quattro persone) all’ingresso del Museo Centrale del Risorgimento di Piazza Venezia. Solo per una casualità non fu un’altra strage. 
Di questo - di quel poco che si sa sulla strategia che sta dietro a questi ordigni, sugli autori e sugli esecutori di questi attentati terroristici in fieri - si occupa l’ultimo libro della giornalista Nicoletta Orlandi Posti (Le bombe di Roma. Udo Lemke, una storia mai chiarita, Castelvecchi, pp. 144, euro 16,50), che basandosi sulle carte dei procedimenti giudiziari, per la prima volta in Italia, ricostruisce l’inchiesta su quelle bombe. 
L’autrice, in particolare, si sofferma su alcuni personaggi le cui dichiarazioni all’epoca furono sottovalutate o, più probabilmente, volutamente non prese in considerazione dagli inquirenti. Su tutti spicca la figura di Udo Lemke, giovane tedesco hippy, che a poche ore dagli attentati si presentò in caserma per raccontare la sua storia. Disse di aver visto in Piazza Venezia tre fascisti di sua conoscenza fuggire dopo l’attentato all’Altare della Patria. Li descrisse minuziosamente, spiegò dove e come li aveva incontrati e conosciuti. Udo si fece avanti pensando di poter essere di aiuto, non certo d’intralcio, alle indagini. Ma non fu cosí: gli inquirenti, dopo aver fatto qualche indagine piuttosto approssimativa, si fermarono. Quasi archiviarono la deposizione, come si fa coi testimoni scomodi. Non dettero credito al tedesco e lo rinchiusero in cella per 10 giorni. Poi lo lasciarono andare, finché qualche tempo dopo lo rimisero dentro per un episodio di droga, a cui il ragazzo era estraneo. Poi fu estradato in Germania col divieto di rientrare in Italia.
«Ma chi era Udo? Un infiltrato dei servizi segreti italiani o addirittura di quelli tedeschi? Quale fu il suo intervento in quel caos che fu l’inizio vero e proprio della stagione delle stragi di Stato», si domanda lo storico Marco Capoccetti Boccia nella prefazione del libro. E perché mai si rivolse alla polizia, cosa pensava di ottenere? Voleva forse aiutare le forze dell’ordine, ma perché? Come mai si decise di non indagare sulle persone tirate in ballo da Udo? Cosa si sarebbe potuto scoprire seguendo quella pista? Tante, troppe, domande a cui non si è mai voluto trovare una risposta e che forse, guardando la vicenda con gli occhi di oggi, avrebbero potuto cambiare, se non il corso della storia, per lo meno lo sviluppo delle inchieste. 
Molti gli stralci degli interrogatori e le deposizioni di testimoni, di persone coinvolte nelle stragi o semplicemente di innocenti (che si tentò di collegare ai fatti del 12 dicembre) contenute nel volume: atti importanti - frutto di un lungo e puntiglioso lavoro dell’autrice - ma che forse avrebbero reso un po’ ostica la lettura. Ecco quindi la scelta vincente della Orlandi Posti che per spiegare l’intricata vicenda ha optato per la forma del romanzo. Una formula che riesce a tenere incollati i lettori, anche quelli meno avvezzi ai romanzi storico-politici, fino all’ultima pagina. 
Le bombe di Roma, analizzando in profondità alcuni piccoli elementi che le indagini di allora non hanno forse voluto cogliere, ci riporta ai primi anni ’70, facendoci comprendere meglio il clima che si respirava nei cosiddetti «anni di piombo» e rivivere la contrapposizione politica e gli scontri sociali di allora, spiegandoci il ruolo dei servizi segreti e della contro-informazione che allora iniziava a germogliare.

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